martedì 22 marzo 2011

Irrappresentabilità tutta da vedere. Shoah e visualità nel libro di Minuz



Alcuni eventi non contribuiscono soltanto a fare la storia, ma anche il modo attraverso il quale ce la rappresentiamo. Con la Shoah è l’idea stessa di rappresentazione ad essere messa in discussione. E come sappiamo dal fin troppo citato interdetto formulato da Adorno secondo il quale non si può fare arte dopo Auschwitz, il genocidio degli ebrei è stato ed è da considerarsi per alcuni e molto influenti personaggi della cultura addirittura inimmaginabile e indicibile.
L’irrappresentabilità dello sterminio degli Ebrei non è stata un paradigma elaborato subito dopo la fine della seconda guerra mondiale e che ha caratterizzato in maniera uguale tutti i paesi europei e gli Stati Uniti. L’idea che lo sterminio non possa essere veramente rappresentato e dunque compreso si afferma nel corso del tempo, in un certo luogo più che altrove e anche in concomitanza con la ricezione e applicazione di teorie estetiche elaborate indipendentemente da quell’evento storico. Quelle alle quali si fa riferimento sono le teorie che accompagnano le pratiche artistiche del modernismo che ha privilegiato il come sul che cosa rappresentare, fino ad arrivare nei casi più estremi – avanguardie e heigh modernism – ad un’arte non comunicativa nella quale l’espressione e l’evocazione si impadroniscono del contenuto fino a renderlo irriconosciblile o fantasmatico.
Come ricostruisce il fondamentale libro di uno dei migliori studiosi di cinema in Italia Andrea Minuz, La Shoah e la cultura visuale. Cinema, memoria, spazio pubblico (Bulzoni, pp. 222, € 22,00), l’interdetto visivo alla rappresentazione dello sterminio degli ebrei si afferma progressivamente negli anni sessanta (ben dopo dunque che si era iniziato a produrre documentazioni storiche, opere letterarie e cinematografiche) per stabilizzarsi successivamente ed avere come epicentro la Francia. Al contrario, negli Stati Uniti si afferma una cultura visiva della Shoah che segue una strada opposta. Non solo a favore della rappresentazione, ma addirittura della divulgazione di essa. Ne è esempio la serie televisiva Holocaust trasmessa dalla NBC alla fine degli anni settanta e che negli anni seguenti sarà trasmessa anche in Germania dove per anni ha costituito la più rilevante fonte di rappresentazione popolare dello sterminio ebraico.
Uno dei pregi del libro di Minuz è quello di individuare non solo chiaramente i passaggi che hanno determinato il percorso storico del rapporto fra cultura visiva e Shoah e le differenze fra Europa e Stati Uniti riguardo questo argomento, ma anche e soprattutto come questi due modi di recepire e restituire quell’evento storico si sono influenzati escludendosi ed incontrandosi nello spazio pubblico e soprattutto su come essi sono stati tradotti nell’architettura. L’analisi condotta sulle strutture formali e narrative dei monumenti e musei della Shoah fra Europa e Stati Uniti (nel libro di Minuz c’è anche un’appendice sul progetto del museo della Shoah di Roma), anche in ragione della specificità del linguaggio architettonico che obbliga in molti casi a rendere più palesi scelte formali e contenuti che nel cinema, nella televisione e nella scrittura rimangono più impliciti, ha contribuito a determinare meglio divergenze e convergenze dei due modelli visuali americano ed europeo della Shoah e a dare la possibilità all’autore di formulare un giudizio politico culturale complessivo su di essi. In tal senso va senza dubbio riconosciuto il merito a Minuz di essersi assunto la rischiosa responsabilità intellettuale di  esprimere un giudizio sui due modi europeo-francese e americano della rappresentazione dello sterminio. La predilezione dell’autore va al modello americano rappresentato dal film di Spielberg perché «Shindler’s List non segna soltanto l’innesto definitivo dell’Olocausto nella cultura americana, ma anche la ricollocazione in un orizzonte transnazionale della produzione memoriale della Shoah» rispetto alla quale la strategia europeo-francese «appare come un progetto di retroguardia».
Uno dei momenti più significativi della ricostruzione storica di Minuz è l’aver rilevato l’importanza della trasmissione televisiva del processo Eichman nel 1960 – 1961 in Israele. «Il primo processo ripreso in diretta dalle televisioni di tutto il mondo» che determina «una nuova sensibilità collettiva nei confronti della testimonianza». Nuova sensibilità che si traduce negli Stati Uniti in incentivo per la fiction narrativa e il film melodrammatico e in Europa in opere testimoniali evocative e anti-narrative. Il risultato di questa gestazione e confronto a distanza fra il modello europeo-francese e quello americano è l’affermarsi di una polarizzazione che vede da un lato il film di Steven Spielberg, Shindler’s List e dall’altro quello di Claude Lanzmann, Shoah. Ma fra Lanzmann e Spielberg la ricezione dello sterminio ebraico si era espressa anche in altre forme e generi visivi. Nel considerare questi, ciò che è significativo per la ricostruzione che offre Minuz, è che l’estrema differenza che c’è per esempio tra la serie televisiva Holocaust, il film di Rivette, il fumetto Mauss di Art Spiegelman, i film del genere nazi-sex-ploitation (fenomeno tutto italiano) e più in generale la trasformazione della parola “olocausto” in etichetta da utilizzare indiscriminatamente ogni qual volta ci sia la sensazione di avere toccato un eccesso di aberrazione hanno in comune proprio il giocare in vario modo con il paradigma dell’irrappresentabilità e di trasformare quest’ultimo in quello che Minuz definisce «un insieme via via diventato esso stesso oggetto di gioco di transazioni e dissimulazioni per affermare e riscrivere ciò che inizialmente era stato negato». 

Marco Pacioni
il manifesto, 2 marzo 2011, p. 12

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