giovedì 14 aprile 2011

Alle origini della graphic novel: i taccuini di Spiegelman

 Tra gli anni settanta e ottanta Art Spiegelman lavora a Maus I e II, fumetto che ha per tema una storia famigliare polacca yiddish raccontata a New York e intrecciata con la Shoah. Nel fumetto gli ebrei sono rappresentati come topi, i tedeschi come gatti e i polacchi non ebrei come maiali per parodiare il modo in cui i nazisti definivano queste persone. Quest’opera, nella quale alcuni vedono uno dei primi esempi di quel genere che adesso si chiama graphic novel, ha faticato un po’ prima di essere recepita anche in Europa dove ha sempre pesato di più l’interdetto sulla rappresentazione del genocidio ebraico nella letteratura, nel cinema e ancora di più in una forma di espressione pop qual è quella del fumetto. In Italia, ad esempio, Maus è stato tradotto e pubblicato soltanto nel 2000 (Einaudi). Nel frattempo Spiegelman ha vinto il premio Pulizer (normalmente riservato a poeti e scrittori), è diventato famoso al livello internazionale proprio grazie al suo fumetto sulla Shoah che ne ha rilanciato la fama anche come illustratore del settimanale radical The New Yorker per il quale, fra le altre cose, ha realizzato la copertina dell’edizione del primo anniversario dell’11 settembre.
Spiegelman si è sempre definito un disegnatore rapsodico, incline ad assecondare il fremito per lo scarabocchio su un foglio di carta mentre è al telefono. Un artista che, tra le forme embrionali di abbozzo di disegno su occasionali scatole di fiammiferi e il lavoro finale, non riempie taccuini di schizzi con diligenza e continuità. Anzi, Spiegelman si dichiara atterrito dall’obbligo di tenere in ordine un quaderno che ha iniziato o addirittura di cominciarne uno nuovo. «M’innamoro regolarmente di quaderni nuovi e intonsi, dei loro differenti formati, delle rilegature e dei blocchi di carta che mi fanno cenni promettenti. Riempio una pagina. Se il risultato mi piace, ho paura di farne un’altra e rovinare tutto. Peggio ancora, se il disegno non mi piace metto il quaderno da parte per non imbrattarlo ulteriormente».
Per questi motivi, Spiegelman ha sempre declinato la richiesta di pubblicare suoi quaderni. Fanno eccezione ora i tre taccuini rispettivamente del 1979, 2007 e 1983 di Be A Nose! (trad. it, di Costanza Pinetti, con un opuscolo introduttivo, Einaudi, € 30,00) che finalmente ci offrono la possibilità di entrare dentro il laboratorio di animazioni e storie in tre momenti importanti della sua vita artistica. Il primo sketchbook del 1979 intitolato Be è un vero e proprio diario visivo che Spiegelman tiene quando decide di venire in Europa per fare ricerche in vista della stesura di Maus. Quello del 2007, A (che sta per Autophobia) è invece una sorta di esercizio al quale Spiegelman si sottopone per esorcizzare la sua «nevrotica autocoscienza» e la sua paura di disegnare maturata dall’obbligo periodico delle scadenze alle quali è sottoposto un disegnatore professionista famoso. Il taccuino del 1983, Nose!, fa riferimento al momento di entusiasmo collettivo per la partecipazione alla rivista a fumetti Raw che lo stesso Spiegelman insieme alla moglie Françoise aveva fondato negli anni settanta.        
In tutti e tre questi taccuini, Spiegelman mostra di aver bisogno del là per accordare la sua mano. Il suo è un disegno che necessita di essere provocato. Le sue storie nascono come note a margine che si espandono, da commenti grafici a testi. Spiegelman parte da un segno già dato, da una traccia lasciata da altri. E già da qui si vede il suo forte legame con la cultura ebraica nella quale sono centrali la scrittura e il gesto rituale. Come si vede anche dai suoi lavori “finiti”, in questi taccuini Spiegelman si mostra essere un disegnatore che teme e rifiuta lo spazio predisposto del foglio bianco. L’autore di Maus ha bisogno di ritagliarsi una parte in un posto già occupato da altri segni e scritture per continuare un percorso o cambiarlo. In tal senso, Spiegelman non conosce mai il disegno che si isola sulla pagina e che non sia già intessuto della storia che vuole raccontare. Il suo è un modo di illustrare sociale, come quello di un William Hogarth della graphic novel in cui i personaggi vivono in sé lo stesso processo di mutazione che subiscono come vittime o carnefici nello spazio storico.

Marco Pacioni

il Riformista, 9 apile 2011, p. 12